E di te, città disperata, e di voi, primi occhi aperti, o Eleati, non è rimasto altro, se non un po' di polvere? La vostra forma mortale era bene un'illusione, come tu dicevi, Parmenide; ma la vostra voce, io la sento in questo silenzio: ciò che era materia immortale in voi, è immortale. Anche in questo mio corpo caduco.
Dall’altura di Velia avevo guardato a sinistra Palinuro colla meraviglia che fa sempre una pietra enorme resa aerea dalla distanza. A destra, la foce dell’Alento m’aveva rimesso in mente questa nozione incredibile: che sono i fiumi che portano il sale al mare. E da tutte le parti ero circondato da cespi di genziana.
Il Mastio di Velia ogni tanto torna ad osservarci, e sta a capo di quelle torri mozze di vedetta fatte alzare da Carlo V e che vanno sino a Reggio. Al coprifuoco la voce delle sentinelle da una torre all’altra andava a perdersi laggiù, e tornava: tutta la notte! Terra d’asilo, e terra di preda! È naturale che dove più invitante è la speranza, sia maggiore il richiamo del male, e non sorprende che questi luoghi fossero brama di razziatori, mori o biondi.
Di colpo, il mare in un punto ha un forte fremito: è un branco d’anatre marzaiole che si rimettono in viaggio. Sono arrivate sull’alba, e ora che principia l’imbrunire, volano via. Così fuggì quel Dio Sonno sceso a tradire Palinuro mandandolo in malora col timone spezzato. E le onde, ora repentinamente infuriate, le muove forse il nuoto disperato del fedele nocchiere d’Enea?
In quel mentre, mentre passiamo di fianco a Pisciotta, ci appare, penetrato nel mare, Palinuro, come uno squalo smisurato, cariato d’oro. Pisciotta si svolge in tre fasce su una parete: la più alta è il vecchio paese, di case gravi e brune e a grandi arcate; in mezzo, sono ulivi sparsi come pecore a frotte; la terza, a livello dell’acqua, la formano case nuove e leggere, i cui muri sembrano torniti dall’aria in peristili.
Ed ora gli ulivi hanno un alone di luce intorno alle foglie, come i santi.
Il Porto di Palinuro ha le casette bianche, e l’ultima è rosa: sembrano sulle prime biancheria stesa ad asciugare, e poi blocchetti di gesso. [...]
Non ho mai visto acqua di pari trasparenza a quella che scopro avvicinandomi al porto. Vediamo la sabbia del letto come pettinata soavemente, e i nastri delle alghe trasformare in serpenti agitati, la bella capigliatura.
E che cos'è quell'alta rupe che ci appare lastricata fino in cima da campicelli come da un'elegante geometria? E perché l'erba, quasi azzurra su quella rupe, trascolorisce irrequieta, come da un sottopelle di tatuaggio a una scorticatura smaltata? Ne vedrò più tardi l'altra anca, nuda e scabra: è la Punta d'Agropoli, e, come un canguro, sulla sua pancia, nascondendola al mare, porta la sua città: un'unica strada che le case fanno stretta, che bruscamente diventa quasi verticale, e ci offre una prospettiva di gente sparsa in moto.
Piccole grotte ora ci fanno compagnia. I cavalloni penetrando in quegli occhi bui, disturbano le pietre, muovendo un rumore d’antiche ossa.
E già quasi notte, e in fila tornano in porto i pescatori d'alici. Raccogliendo le reti, una sera, a una maglia restò presa non la gola d'un pesciolino, ma a un cernecchio, una testa d'Apollo... a quel pescatore parve il Battista. L'ho veduta al Museo di Salerno, e sarà prassitelica o ellenistica, poco importa; ma questo volto, che per più di duemil'anni fu lavorato dal mare nel suo fondo, ha nella sua patina tutti i colori che oggi abbiamo visto, ha conchigliette negli orecchi e nelle narici: ha nel suo sorriso indulgente e fremente, non so quale canto di giovinezza risuscitata! Oh! tu sei la forza serena e la bellezza. Quale augurio non ci reca quest'immagine che fra gli ulivi, è finalmente tornata fra noi.
Questa piana rivedrà presto tornare le sue rose celebrate; ma il cielo ha qualche rosa, ora, e stasera la loro brevità è fulminea.
Ora che siamo vicini, avviene che uno stormo di cornacchie si mette in fuga dal tempio di Poseidone; e appena in aria, una prima cornacchia lancia il suo gracchio; le altre rispondono rifacendo più e più volte quel verso. Di nuovo il corifeo strazia l'aria: questa volta i gracchi erano due, di tono nettamente più acuto; e il coro ripete i versacci accelerando il ritmo. Dopo, esse, in una confusione di strilli, spariscono... Sarà per averci fatto il nido da tante mai generazioni, sarà caso, sarà natura di questi uccelli atri, ma la metrica del loro canto è quella del tempio [...].
Non ve lo starò a descrivere. Dirò solo che, davanti, il timpano e le colonne doriche ci mostrano un travertino come un vetro infiammato: nel cuore della pietra brucia la luce che non consuma, e traspare la sua indifferenza sacra. Ai lati c'è invece il senso tragico del deperire: colonne vuotate dai lunghi anni con i labirinti della carie; e hanno un aspetto di funghi rugginosi, e anche di mummie tolte dalle fasce. Ed allora girandogli intorno, l'uomo raggiunge l'ultimo limite dell'idea del suo nulla, al cospetto d'un'arte che colla sua giusta misura lo schiaccia. Gli altri due templi, più tenui di colore, d'un lavoro più grazioso, meno religioso, sembrano, non avendo più ritte che le colonne del perimetro, vecchie gabbie buttate lì.
Oh, le cose seducenti passano, e la misura, che, senza misericordia, le fa apparire mutevoli, è, in quel tempio, d’un’impassibilità agghiacciante!
La gente, ed è appena notte, è tappata nelle sue case e, fuori, non c’è un lume. Il cielo è coperto, il mare è di piombo, e i monti lo chiudono come un mucchio di lastre dentate di vetro affumicato. Tre oscurità, e silenziose! È la notte assoluta.
Venga dal numero o venga dal sogno, la bellezza può non essere orrenda?
Tutto il resto che ci commuove, non verrà se non da malinconia.
il corsivo è tratto dalle pagine dedicate al Cilento (patrimonio unesco dal 1998) da Giuseppe Ungaretti nel suo libro di viaggio 'Il deserto e dopo'.
Il dopo, purtroppo, lo stiamo vedendo e patendo.
ha un nome: 'la terra dei fuochi'.
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