...recita un antico proverbio irlandese.
più o meno è quel che si augura chi, avendo fede, pospone lo stato di grazia e beatitudine in un futuro ben più incerto di quello fisico in cui il suo corpo è al momento relegato.
chi subisce e sopporta rincuorato dalla speranza che, anzi, maggiore è la sofferenza in terra e maggiore sarà la felicità nei cieli.
chi crede e chi no.
e a chi no, cosa resta altro che tutto quello che c'è?
traduzione
in ogni caso, per tutti viene il giorno che finisce 'quel che c'è' e quando accade mica è detto che si abbia il tempo di accorgersi di avere già un piede dall'altra parte.
la sera a letto penso spesso all'eventualità che al mattino sia tutto finito e, benché a fatica, sono arrivata alla conclusione che l'unica persona a cui la cosa sarebbe del tutto indifferente sarei io stessa.
ci penseranno gli altri a sfondare la porta, trovarmi e scartabellare alla ricerca delle tracce da seguire per sbrogliare le noiose burocrazie, ecc. ecc.
quel che invece mi spaventa ancora è il malanno, l'accidente che ti lascia lì a ebetire, incapace di chiedere soccorso, soprattutto se accompagnato da atroci dolori e sofferenze per settimane.
anzi, settimane no. giorni.
tre, quattro?
diciamo anche cinque o sei, dato che in stato vegetativo, secondo me si resiste anche senza acqua.
mettiamo che i primi due, benché immobilizzata, io sia ancora in qualche modo cosciente...
ecco, questa cosa qui fatico a digerirla.
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