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bella o brutta che sia,
mi soddisfa e tanto mi basta.

lunedì 29 luglio 2013

l'homo 'in'sapiens

mooolto interessante il punto di vista espresso in questo articolo, dissento solo per una cosa: il lieto fine.
secondo me finisce male.
anzi mi stupisce che il prof. nutra delle speranze dato che è il primo a sostenere che nasciamo 'male'...

La guerra eterna tra uomo e ambiente
L’ecologo e presidente del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze Guido Chelazzi
Non esiste né mai è esistito un rapporto “naturale” tra l’uomo e l’ambiente. In questa intervista l’ecologo Guido Chelazzi, autore de “L’impronta originale”, spiega che la crisi della biosfera ha radici genetiche nel cervello dell’homo sapiens
ELISABETTA CORRÀ (lastampa.it)

La favola è svanita. Dimentichiamo gli indiani buoni di “Balla coi lupi”, che al contrario dei brutali confederati americani - e di noi contemporanei - sanno cacciare in modo sostenibile le immense mandrie di bisonti che attraversano la frontiera. Oltre diecimila anni prima, i Clovis, gli antenati dei Sioux, avevano sterminano i mammiferi giganti del Nord America. Non è mai esistita una relazione d’amore con animali e risorse naturali, anzi, il percorso evolutivo di Homo sapiens è segnato da una colpa irrimediabile: la totale mancanza di limiti di una intelligenza capace di modificare a suo piacimento gli ecosistemi. Questa la tesi de “L’impronta originale” (appena uscito per Einaudi) di Guido Chelazzi ecologo e presidente del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, un libro che probabilmente farà storcere la bocca a non pochi ambientalisti, privo come è di confortanti malinconie ecologiche e improntato invece ad una sincera ammissione di responsabilità: la crisi della biosfera e della atmosfera ha radici nella storia genetica del nostro cervello ed è quindi una conseguenza del nostro essere, nonostante tutto, parte del mondo naturale. 


Professore Chelazzi, nel suo libro intenta un processo all’uomo e alla sua impronta ecologica. L’imputazione è di aver piegato l’intero Pianeta alla propria civiltà, alterandone gli equilibri biologici fondamentali. Quale è il verdetto?
Un paradosso: l’uomo può essere assolto per aver commesso il fatto in quanto vittima e anche colpevole. Ho provato a raccontare la storia naturale dell’uomo incrociando i dati della paleoantropologia, dell’archeologia, della psicologia sperimentale, della biologia evoluzionistica e della paleoclimatologia, con l’intento preciso di smontare il mito dell’antica armonia perduta tra uomo e natura. L’interferenza con gli ecosistemi deriva da una evoluzione del pensiero, non solo dell’azione umana. Ed è sempre stata spinta al massimo. Dovemmo renderci conto che la nostra capacità di manipolare gli ecosistemi è una caratteristica antropologica profonda. Insomma, siamo nati con un carattere difficile e anche un po’ trasgressivo. Già 200mila anni fa noi Homo sapiens abbiamo imparato un radicale trasformismo ecologico che si potrebbe riassumere così: mangiare di tutto, porci obiettivi di espansionismo territoriale per sperimentare una dieta sempre più varia, usare le barriere geografiche come stimoli per innovare i nostri utensili e provare a tenere unito il gruppo anche lontano da casa.

Il processo all’uomo ha dimostrato che praticamente ogni nostro passo, sin dalla comparsa di Homo habilis nelle savane della Rift Valley, in Africa, ha avuto conseguenze imprevedibili. Siamo nati ingegneri ben prima dell’invenzione della matematica e della fisica. 
Homo sapiens è l’unica specie dotata di un eccezionale talento di ingegneria ecologica. Anche il castoro è un ottimo ingegnere. Le sue dighe modificano il corso dei fiumi e interferiscono con il ciclo delle sostanze nutritive contenute nelle acque. Così come i cianobatteri, che hanno pompato in atmosfera abbastanza ossigeno da determinare la formazione della fascia protettiva di ozono. Ciò che caratterizza la nostra storia evolutiva, compresa quella attuale, è però l’imponente intelaiatura di effetti retroattivi e di feedback innescati dalle nostre invenzioni e conquiste. Il nostro patrimonio genetico ci permette di escogitare modi per modificare a nostro vantaggio gli ecosistemi, e queste alterazioni a loro volta influenzano i nostri comportamenti, le nostre scelte, la nostra storia e la nostra stessa genetica. Perciò ormai si parla di un rapporto circolare tra noi e l’ambiente. Le popolazioni umane sono legate agli ecosistemi in un rapporto di feedback eco-evolutivo.

La teoria della costruzione della nicchia ecologica è ampiamente discussa nel suo libro, e lei la sposa appieno, insistendo però sul fatto che per Homo sapiens c’è un altro fattore in campo, e cioè la cultura.
La cultura ha impresso una accelerazione alle imprese di Homo sapiens. Più diventavamo culturalmente eclettici, più la nostra impronta ecologica aumentava. Facciamo l’esempio della metallurgia e di cosa succede con l’Età del Bronzo, 4mila anni fa. Asce e aratri migliori permettono di disboscare con più efficacia e quindi di disporre di una area coltivabile più ampia, con conseguente maggiore disponibilità di cibo e incremento nella produzione di altre asce e di altri aratri. Ma una ascia di pietra ha un costo ambientale minimo, mentre una di ferro o di bronzo implica lo scavo di un miniera, l’abbattimento di alberi necessari alla produzione di carbone per la fusione del metallo. Nell’area Mediterranea, dove sono nate tante civiltà antiche, è evidente la connessione storica tra l’avvento delle tecniche metallurgiche, la coltivazione di cereali domestici e degli alberi da frutto, l’allevamento delle greggi e il boom demografico.

Nel suo libro il clima è presentato come un fattore evolutivo. La nostra specie è quindi figlia del cambiamento climatico?
Dal punto di vista dell’alterazione del clima terrestre, siamo ormai dentro un esperimento mai tentato prima e dall’esito quanto mai incerto, questo va detto. Se guardiamo al nostro passato, è accertato che l’instabilità tettonica subsahariana, cominciata 35 milioni di anni fa nella regione dell’Afar, in Etiopia, ha spaccato il continente generando la frattura della Rift Valley, ed entrando in interazione con il clima. I laghi del Rift - come il Turkana e il Tanganica - funzionarono durante il Pleistocene come amplificatori delle variazioni climatiche, che fra 3 milioni e 1 milione di anni fa si fecero più irregolari. Ed è in questo periodo che sono comparse 12 delle 15 specie di Ominidi che conosciamo. Il clima instabile ha funzionato come spinta evolutiva per i primi uomini.

Oggi però il riscaldamento globale è una minaccia grave. L’ambientalismo militante oscilla tra posizioni ideologiche emotive, il catastrofismo combattivo e una colpevolizzazione totale della civiltà umana. Lei invece prende un partito diverso. 
Ciò che serve ora è sentirsi responsabili, non in colpa. Credo che certe forme facili di ambientalismo offrano il fianco al negazionismo, insistendo da un lato sulla “colpa” dell’uomo nei confronti della natura, dall’altro coltivando il mito di un Eden originario e perduto, che è uno schema fuorviante dalle antiche radici culturali. Di matrice biblico-giudaico-cristiana, certamente, ma non solo; se ne trova traccia anche in Platone e Pausania. Si fantastica su un primordiale idillio tra uomo e natura. Ma in realtà i rapporti tra clima-uomo-ecosistemi sono sempre stati sofferti. Già Homo ergaster e Homo erectus non erano degli angioletti. Noi ci siamo affermati come super-predatori.

La preferenza per una dieta a base di carne è uno dei punti più convincenti del suo libro. Lei sostiene che siamo nati carnivori e che è stata la varietà della dieta a rappresentare, insieme al linguaggio, la chiave di volta della nostra storia evolutiva. 
La nostra specie ha un rapporto genetico con la carnivoria. L’antropologia moderna permette di ricavare dalle ossa degli Ominidi e del nostro parente più stretto, il Neandertal, una moltitudine di informazioni sulle interazioni tra i nostri progenitori e l’ambiente, compresi i dettagli della loro dieta. Il profilo dietetico dei nostri progenitori è chiaro: comincia con un inserimento nel club dei predatori. E’ probabile che in principio si trattò di saprofagia: rubavamo gli scarti e gli avanzi degli altri carnivori. Anche il Neandertal era un super cacciatore e un carnivoro spinto. Ciò che ha fatto la differenza di Homo sapiens rispetto agli altri uomini è stata una incredibile versatilità trofica. Il sapiens mangiava di tutto, molluschi, tartarughe, crostacei, carne, vegetali. Non cacciava solo grossi mammiferi, come il Neandertal, ma anche lepri e pernici. Questa capacità di spaziare tra tutti i cibi disponibili fu consentita da una eccezionale intelligenza fluida, che è stata la vera rivoluzione del nostro percorso evolutivo. Sapevamo inventare trappole, agguati, imboscate; progettavamo soluzioni alimentari fondate su una capacità di pensiero in grado di proiettarsi nel futuro; costruivamo mappe geografiche mentali, che ci consentivano di usare il pensiero astratto per prelevare risorse dagli ecosistemi e colonizzarne di nuovi. Fino a quando, diecimila anni fa, abbiamo imparato a costruirci da soli la nostra base trofica, attraverso l’agricoltura e la domesticazione.

Lei scrive che lo studio del passato geologico ed archeologico non è un esercizio di stile, ma un percorso indispensabile per sviluppare una responsabilità etica verso il Pianeta. Parla da filosofo, non solo da ecologo.
Le informazioni di cui disponiamo oggi, ad esempio in paleo-climatologia, 20-30 anni fa non esistevano. La nostra comprensione profonda dell’impronta ecologica umana è quindi recentissima e ci impone una maturità improvvisa sulle conseguenze delle nostre azioni. La nostra colpa non è rivolta al passato, ma al futuro. Nessuna vera responsabilità può prescindere dalla consapevolezza storica di ciò che siamo come specie, fuori da ogni romanticismo e ideologia. Ho voluto però anche criticare un certo scientismo, che pretende spesso di ridurre la complessità dei problemi che abbiamo davanti ad un algoritmo onnicomprensivo, e cioè ad una formula matematica. Ma l’algoritmo non potrà sostituire la coscienza di Homo sapiens, anche se la dovrà informare sui fatti. Il processo all’uomo chiama in causa posizioni morali.

Vorrebbe aprire i laboratori di ricerca agli studiosi di filosofia?
Quando dobbiamo prendere delle decisioni la collezione di dati non è sufficiente. Bisogna attingere a qualcosa d’altro. La consapevolezza dell’urgenza dei problemi che ci affliggono si nutre di un elemento morale, che a sua volta alimenta la sensibilità e la volontà di agire nel concreto. Un viaggio sulla Luna non è solo un esperimento di elettro-magnetismo; è una fuga, un interesse, una esplorazione, l’espressione di un carattere. Penso che ci sarebbe molto utile cominciare a vedere i dilemmi ecologici anche da un punto di vista “umanistico”. Abbiamo ormai alle spalle una sperimentazione culturale enorme, lunga migliaia di anni: usiamola. Ognuno di noi è un Prometeo, perché ognuno di noi ha una responsabilità individuale, che si ripercuote poi sulla responsabilità globale di Homo sapiens. Non possiamo ignorarlo, se vogliamo davvero essere scienziati. Milioni di bellissime pubblicazioni su Science e Nature non servono per sensibilizzare l’opinione pubblica, mentre i versi di Omero sulla deforestazione dell’Attica, in Grecia, accendono l’interesse per una storia, che è la nostra su questo Pianeta. La scienza, in questa fase storica senza precedenti, non deve rinnegare le implicazioni culturali e morali dei fatti di cui si occupa.

Nel libro riscaldamento globale ed estinzione sono legati a filo doppio. Quale è il nostro rapporto con le altre specie oggi che si parla di sesta estinzione?
Il paleontologo Anthony Barnosky ha provato a calcolare le variazioni della biomassa umana - quanti esseri umani ci sono sulla Terra - a partire da 50mila anni fa. Nel Paleolitico medio eravamo tra 60 e 70 tonnellate; 13 milioni di tonnellate 2000 anni fa, oggi abbiamo superato i 469 milioni di tonnellate di zavorra umana sul Pianeta. Si è verificato una sorta di “travaso” di biomassa dalle specie animali selvatiche ad Homo sapiens, e ai suoi animali domesticati. Il fatto è che non siamo in grado di avere una impressione diretta dell’estinzione mentre accade attorno a noi. Se guardo il sole, non colgo il movimento della Terra rispetto alla nostra stella, eppure al tramonto mi accorgo che la giornata è finita. La verità è che Homo sapiens è impegnato da decine di migliaia di anni in un gigantesco progetto di semplificazione delle forme di vita con cui condivide la Terra.

Tra i capi di imputazione a nostro carico c’è infatti l’incremento demografico, un tabù raramente affrontato a viso aperto, su cui lei invoca un “principio di precauzione”.
Nel cocktail velenoso di fattori che hanno innescato il declino pauroso della biodiversità il più distruttivo è sicuramente la perdita di habitat. Non ha senso porsi come obiettivo la salvezza di una specie se non c’è più un habitat che la sostenga. Le aree protette, come i parchi nazionali, possono addirittura contribuire al declino di una specie, funzionando come “rifugi” temporanei, ma alimentando il crollo delle popolazioni per eccesso di impacchettamento. Le specie hanno bisogno di spazio, ma dove trovarlo sotto la pressione dello spaventoso incremento demografico che ha imposto al Pianeta la cifra record di 7 miliardi di esseri umani? Un volume di persone assolutamente insostenibile. Siamo dominati da un modello espansivo, non solo in economia. Molti dei nostri paradigmi giuridici e morali si sono costruiti negli ultimi 2-3 mila anni, in un mondo estremamente più vuoto dell’attuale: mi chiedo, come possono essere ancora efficaci?

Secondo lei siamo di nuovo in uno di quei colli di bottiglia in cui il riscaldamento globale funziona come una pressione evolutiva su Homo sapiens?
Siamo a un bivio, nostro e del Pianeta. Sì, ritengo che ci è richiesta una risposta adattativa, tanto al cambiamento climatico quanto all’estinzione della biodiversità, simile a quelle che abbiamo messo in campo durante i capricci climatici del Pleistocene. Ma in questa risposta deve esserci di necessità la rottura con un modello sociale ed economico che chiude l’uomo negli eden artificiali del consumismo, nella contingenza emotiva del centro commerciale. Siamo in una fase di instabilità, ma una cosa è chiara: l’impegno di cui abbiamo bisogno non è solo scientifico, è culturale e morale.


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