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(...) vecchia (e stanca) bio contadina part time,
considero il blog una finestra come le altre che ho in casa e,
per chi guarda da fuori, una stanza al pari di un'altra.
bella o brutta che sia,
mi soddisfa e tanto mi basta.

lunedì 13 ottobre 2014

La palude definitiva

Ho memoria oscura, sempre più logora col passare degli anni, di ciò che mi ha condotto in questo luogo deserto che mi è diventato patria. Rammento una città sontuosa, edifici irti di pinnacoli, grovigli di strade sottili, subitanee piazze; su una di queste s'affaccia una casa dalle stanze anguste, certamente una casa illustre, sulle pareti della quale erano disegnati stemmi, motti, ora nella memoria, risibili e sinistri; giacché quel che ricordo è una folla che, di notte, gremiva la piazza davanti all'ingresso - un ingresso elaboratamente ornato da belve allegoriche, devotamente araldiche - e urlava la mia infamia. Si agitavano torce, come a promettere il rogo, si scuotevano ferri; ma che mai avevo compiuto per essere oggetto di tanto furore? Ora la folla si zittisce, ora si avanza un uomo vestito con le variopinte vesti del boia, dell’uomo di giustizia e legge una sua carta, la grida anzi, e guarda verso le finestre della casa, e dietro a quelle finestre io sto acquattato, ascoltando; legge, l’uomo della giustizia, un elenco di miei misfatti che sono diventati i miei connotati. Ho dunque frodato, ho recato violenza, ho aggredito, ho commesso atti intollerabilmente sacrileghi?
La città in cui vivo è singolarmente pia, e sebbene corriva al vizio più agevole e ingenuo, non tollera gli oltraggi che si atteggiano a sfida di ciò che qui è sacro. Non rammento che mai avessi fatto, quale tempio avessi profanato e in che guisa, né quali divinità avessi sfidato, e invero non rammento più quali mai fossero le divinità che in quella città antica e severa si adoravano con riti fastosi ed esigenti. Credevano in un solo o in più dèi? O forse i dèmoni, spiriti e geni, avevo forse offeso, i i defunti, i morti taciturni ed eloquenti che talune famiglie adottavano come custodi delle loro effimere fortune?
Avevo compiuto qualcosa di intollerabile, e che la città non avrebbe tollerato. Avevo visto uomini più quieti e modesti di me bruciare tra le fiamme di un rogo altissimo, quasi un edificio, oserei dire non privo di eleganza; in questa città scorre il sangue dei rei; e la gente, vestita in vesti pittoresche, assai se ne diletta. Nulla rammento dei miei delitti, ma mai ho dimenticato quel momento di orrore, giacché sapevo che in nessun caso sarei riuscito ad argomentare a mia difesa, ad estenuare la violenza delle accuse, a spiegare come quei gesti empi racchiudessero un segreto gesto devozionale, forse un difficile inchino rituale. Non posso sperare di indurre quella folla ad una tregua; e dunque fuggo, spalanco la porta, e tengo la spada dritta davanti a me; si fa silenzio, la mia disperata audacia non spaventa ma stupisce, ed ecco che mi inoltro pe ril dedalo, il labirinto delle strade, sulla punta della spada mi faccio consegnare un cavallo e fuggo, lascio la città che non vedrò mai più; lascio certo qualcuno che amo, studi diletti, passeggiate pensose con amici di ardua compagnia, lascio una grand enobile biblioteca, e forse anche compagni viziosamente diletti, empi dibattiti sulla eternità delle pene infernali, giochi argutamente negromantici, lascio fantasmi che ho evocato ma non liberato dal mio potere e che ora forse ancora si dibattono per le strade di quella città di antica bellezza; gli déi che dicono io abbia insultato, perdono ogni nome mentre io cavalco nella notte, non rammento più che cosa mai credessi, quali fantasie mi abbiano spinto a sfidare potenze di cui ignoro tutto, e che non nominerò mai più, né per preghiera né per imprecazione.

(...)
La città in cui faccio sosta per dar tregua a me e al cavallo, è piccola e povera, priva di bellezza, ma famosa per la brutale insidiosità dei suoi abitanti; non ho che da dirmi fuggito davanti alla legge per esser gradito, accolto come un complice in ambasce. Solo in quel momento vedo a ofndo quanto sia sciagurata la mia condizione; io trovo pace, e indubbiamente questa è pace, tra assassini, ruffiani, uccisori per denaro, donne immonde; provo una acre pace quale solo la frequentazione del peccato può dare. Di questo borgo ho ricordi solo notturni, e forse vi ho trascorso solo una notte, o forse ho osato affacciarmi per le strade solo di notte; in quel borgo non ho ricordi di luci che non siano lanterne. Uomini vestiti in modo fantasioso mi salutano come uno di loro; mi prenderebbero a lavorare come tagliagole, tagliaborse, falsario; ma io non voglio fermarmi; sanno indicarmi un luogo dove io possa trovare ricetto, al riparo dalle furie di una città che vuole il mio sterminio? Un vecchio che nasconde il viso nell'ombra di una lucerna, mi parla per la prima volta della palude.
(...)
Non è, questa, una palude; ma in qualche modo la palude definitiva, un luogo dove, mi sento dire, nessuno scabino o giustiziere oserebbe inoltrarsi; ma un luogo in cui è difficile entrare e impossibile uscire; dove io sarò al sicuro, ma affatto solo, e per sempre escluso da ogni commercio umano. Non vorrei portare con me una tenera infanticida, per i giusti commerci della carne? Faccio segno che no, non voglio altro che un riparo che tenga lontano da me le mani spietate dei giusti. Nella palude non osa andare se non chi abbia compiuto gesti tali da essere abbandonato dagli déi e odioso agli uomini. Dunque qualcuno è andato alla palude prima di me? Le risposte sono vaghe: forse molti anni prima qualcuno è andato, ma non è detto che sia riuscito a penetrare; giacché anche l'ingresso nella palude è sommariamente rischioso. Chiedo se esistono sentieri, anche se angusti, impervi; mi dicono che la palude non sia  immobile, e sentieri vi sono, ma si mutano di giorno in giorno, o almeno di mese in mese; né è dato riconoscerli in modo certo. Vi sono guide? No, non vi sono guide, perché nessuno osa inoltrarsi per la palude, dove non vi sono che erbe lacustri, funghi, vermi, bisce, minuscoli animali, e dovunque la terra ora resiste, ora cede al piede avventuroso. Se qualcuno affronta la palude sa che nessuno lo aiuterà, che nessuno ascolterà le sue grida d'aiuto se gli accadrà di affondare nella melma. Non vi sono carte, nessun segnale? Il vecchio, nascosto nell'ombra della lampada, parla di nuovo: andare verso la palude non è difficile, anzi è quasi inevitabile, il pericolo sta in questo appunto, che ci si accorge della palude solo quando ci si è dentro, troppo dentro; ci si inoltra per un bosco rado e benevolo, si procede quasi fosse una gita, una quieta camminata per ragioni di salute. Non dicono i medici che l'aria dei boschi giova alla salute, rallegra i polmoni, distende i nervi e aiuta il difficile sonno di chi ha consuetudine di colpe e delitti? Il piede non segnala nulla di anomalo, si procede, e solo quando il piede una prima volta scivola, ci si accorge di essere già ben addentro alla palude; guai, allora, a chi volta bruscamente per rifare la strada; giacché il moto del piede aprirebbe una voragine cui nessuno potrebbe sottrarsi; dunque si dovrà procedere, trattando la palude come fosse qualcosa di vivo, e malvagiamente vivo, che si può cercare di fordare ma non sfidare. Bisogna camminare poco alla volta di lato, senza mai far capire alla palude che si vuole fuggire, oppure bisogna procedere, sperando nella clemenza del suolo, che talora senza che se ne capisca il motivo, si rassoda e pare aiutare il cammino. La palude ha un nome? Sto pensando a quelle divinità che ho, dicono, insultato. No, la palude non pare abbia nome, o se l'aveva è diventato empio pronunciarlo, non si può tollerarlo, è il nome dell'oblio e del terrore. 
(...)
Se ti penso come una sterminata piaga io posso contemplarti con venerazione; e se ammiro la tua coerenza, la tua pazienza con te stessa, capisco anche che, al postutto, io sono il tuo lamento, la tua lacrima, la tua disperazione, mia palude; io posso forse esserti dolore, ma io non sono la palude. Mi sono chiesto se al di sotto della palude vi fosse ad un certo punto altro, e che altro; forse una ulteriore palude; ma ora che ti contemplo come piaga, penso che oltre a te vi sia solo il nulla; ma vorrei essere chiaro, tu piaga sei appoggiata sul nulla, tu sei questo, la piaga del nulla. Qualcuno ha consentito al nulla di consistere a tal punto da non già tollerare ma esigere una piaga. Sei dunque la piaga necessaria, sei tu l’unico indizio che il nulla esiste? Il nulla malato, malato di te, come noi, mia piagata palude.
(...)
Ma la palude alla verità è indifferente, alla nobiltà oppone distrazione, non ribelle perché è ribellione; ma la sua ribellione è inavvertita, e nessuno, neppure la palude stessa, sa in che cosa consiste codesta rivolta inesauribile e silenziosa. La palude è, vedi, furba; è, sappilo, ingegnosa; è, non ti sfugga, sfuggente. È sempre lontana, ma non si apparta; è sempre pensosa, ma ti appare distratta, è letale, ma sembra accogliente. 
(...)
Voglio dunque recarmi nella palude? Non voglio sostare in quel borgo dove la giustizia non osa esigere i suoi tributi? Non oso più sostare tra gli esseri umani, pavento la giustizia dei giusti e quella ancora più esigente degli ingiusti, voglio la fuga. Qualcuno mi indicherà la strada?
(...)
Perché non esisto? Perché non decido che è più saggio restare a vivere una vita onestamente delittuosa, o forse tornare indietro e consegnarmi al rogo, alle forche della nobile città da cui sono fuggito? Perché, nel momento stesso in cui qualcuno mi ha parlato della palude, ho sentito che quel luogo mi era assurdamente consueto, amico, un luogo che solo io potevo apprezzare e frequentare? Non avevo rinunciato ad una patria ostile e incattivita per andare in cerca di una patria insieme terribile e mite, un luogo in cui forse mi sarei perduto, ma che non aveva nei miei confronti alcuna esigenza di punizione, di giustizia? Forse andavo verso la mia tomba, ma non era impossibile che quella fosse anche veramente una casa accogliente e mite; forse questo mi sedusse, la sensazione che una palude, un luogo morbido, languido, acquoso, attraversato da itinerari imprevisti fosse anche un luogo intimamente mite, una sede di mollezza, di languori, un che di sfatto, mezzo marcio come può esser marcia la polpa di un gigantesco frutto andato assai oltre la sua maturazione. O la mia tregua acquitrinosa, mia morta gora, fracida di erbe consunte, di animali morti, tenero padule, forse un dio, forse una dea, forse una bestia acquosa, una marcida fracida quanto languida fanga, mia patria, mia tregua. Ed ecco cosa ora io sono, io sono ormai dentro la palude; e il cavallo procede.
(...)
Capisco ora quel che mi è stato detto, che della palude è impossibile disegnare una mappa; se dopo aver scrutato il cielo abbasso gli occhi vedo una palude che mi sembra affatto nuova, incomprensibile, estranea. Sono scomparse quelle isole, ed ora un grande, buio banco di sabbia è in verità un'isola, e sull'isola vedo un brulicare di effimere, credo di vedere levarsi in volo farfalle di putredine, e subito disfarsi; e nell'acqua, davanti a me, galleggiano grumi di insetti, di vermi che si decompongono in filamenti erbosi, già ansiosi di farsi animati atomi di precipitosa vita; dove erano brevi gorghi, ora si apre un silenzioso vasto turbine, qualcosa che pare suggerire come la palude sia capace di una sua magnificenza; e veramente io saluto ora il regno della palude, e mi candido a farmi di questa cortigiano e suddito. E dunque, fraterno a questi insetti, questa pia verminaia, queste tacite bisce, e poco men che liquidi rettili, questa acqua allumacata, argentea e morta, questa corrotta e vitale piana, regno senza monarca, io dunque, mia palude, in te mi inoltrerò, e sia la mia sorte quale può essere, giacché io non sono diverso da questi minuti effimeri che fanno di questo spazio mirabile e orrendo un cimitero e un nido, una generante conclusione.
(...)

disordinatamente tratto da 'La palude definitiva', opera postuma di Giorgio Manganelli

2 commenti:

  1. Adesso ti faccio ridere! Ho letto due volte questo brano e tutto quello che ho capito è solo un viaggio delirante in un posto ameno, abitato da assassini e da gente corrotta fatto dall'autore che (e adesso riderai) ero convinta fosse, si il Manganelli, ma l'Antonio, il defunto Capo della polizia! Ero fermamente convinta che la location amena fosse la scuola Diaz di Genova dopo i fatti del G8.
    Perdona la mia ignoranza Teti! :)

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    1. altrettanto fulminata io... mai colta l'omonimia tra i due...

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