Il lavoro, l'attività umana che dovrebbe essere un diritto e non lo è più, l'ho avviato alla fine degli anni settanta del secolo scorso dunque più o meno trentacinque anni fa, prima ancora di finire il liceo che avevo scelto pensando di diventare insegnate di educazione artistica, cosa che per una serie di motivi non è stata.
L'estro, la creatività e le arti figurative, pittoriche in special modo, sono state il mio linguaggio preferito per diversi anni e a tratti hanno continuato a esserlo fino ad ora, anche se la scrittura ha avuto ed ha tutt'ora una parte rilevantissima nell'attività professionale come nella vita e molto spesso anche nell'amore.
Quello che la mia aquila interiore aveva desiderato vedere, tanto desiderato da esserne convinta, era uno sfaccendare instancabile, insistente, famelico e assatanato per arrivare intorno ai cinquant'anni a tirare i remi in barca e dedicarmi alle passioni che l'impegno e i doveri famigliari mi sembrava precludessero o quanto meno rendessero impraticabile l'abbinamento dovere e piacere.
Una vita di corsa per gli impegni e per quella sensazione assillante che il tempo fosse prossimo a finire se non già finito, e chi ha avuto grossi guai alla salute ed è stato in pericolo di morte sa benissimo di cosa sto parlando.
Un figlio nato da un padre ignorante e una madre snaturata, da crescere in perfetta solitudine e scarsa solidarietà famigliare, scarsa, no assente è più proprio.
Disumana, forse snaturata è stata la vita che ho vissuto e intanto l'aquila vagava ruotando, in picchiata, a volte in coppia, garrendo uno all'altra per far sapere a tutto il mondo che sono una coppia e non due animali che volano liberi, soli, indifferenti di predare un amore che sanno di aver e per sempre già trovato.
Dunque la certezza che tanto vagare e lavorare con lena e impegno indefessi portasse un futuro sicuro se solo la salute avesse consentito di averlo quel futuro e invece una volta prossima alla soglia dei 50 non ci sono remi da tirare in barca, anzi, non c'è neanche la barca e nemmeno il porto.
Una mareggiata ha portato via tutto che fosse illusione oppure realtà.
Resta la luce bianca accecante che riempie gli occhi e non voglio vedere o vorrei riuscire a oltrepassare in barca o anche a piedi non farebbe differenza e invece non finisce mai tanto che credere in qualcosa è ancora più illusione e ancora più cecità.
Il vuoto incrostato di rottami verniciati di calcio fumante per igienizzarne le pareti crepate e sfaldate per dividere, separare, distinguere il niente dal nulla.
Guardo per aria, anche l'aquila non sa che guardare, si perde nell'alone di luce, ma lei entra ed esce, penetra e sorvola, aggira e scarta, gioca e aggredisce, si nasconde e riappare incurante che il suo sia un lavoro o semplicemente una vita.
E allora io, che invece di piume, ho la pelle avvizzita e le protesi alle ali, una vista che definire carente è generoso, senza gusto nè odorato, con l'energia fisica di un bradipo e quella mentale che va sempre a mille, resto ferma per andare e volare dove voglio, con chi voglio, quando voglio, per quanto mi pare.
Trasformo il mio diritto al lavoro, perduto, in lavoro costante, continuo, testone e cocciuto di un senso da dare al resto del tempo che resta, che ho e che è stato.
Apro una nuova latta di giallo, di rosso, di blu e stendo pellicole colorate che poi copro di grigio e poi di bianco per assomigliare alla luce che abbaglia i sogni e il domani lasciando a chi verrà dopo leggere cosa questo fare nascosto vuol dire e se era il meglio o il peggio, per me non fa alcuna differenza, questo è.
Corsi e ricorsi, indice dei precedenti capitoli (CLICK)
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